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FESTA DI DON BOSCO 2019: l’incontro con Angelo Corbo

Lo slogan della festa di don Bosco celebrata lo scorso 31 gennaio è stato: “Camminate con i piedi per terra e con il cuore abitate in cielo”. Il santo di Torino che moriva 131 anni fa è stato ricordato e festeggiato, come tradizione vuole, dai nostri 750 ragazzi in una mattinata che è cominciata, innanzitutto, con la Messa.

L’Eucarestia è stata presieduta da don Enrico Ponte, responsabile dell’animazione vocazionale del

Triveneto, il quale – camminando in mezzo a una palestra affollata – ha proposto tre idee durante l’omelia: in primo luogo ha parlato di scoprire il proprio valore e di volersi bene, come insegnava don Bosco ai suoi giovani abbandonati a loro stessi, soli, sfruttati, in cerca di lavoro nella Torino industriale. In secondo luogo, don Enrico ha spiegato che ci sono modi bellissimi per sfruttare la vita, come tentava di spiegare don Bosco ai giovani che vedeva giocare a poker investendo i propri spiccioli: “C’è un mondo di bene che puoi fare – ha detto il sacerdote – Se spendi la tua vita per qualcun altro, la tua diventa molto bella”.

Infine, il dono più bello: la gioia. È quello che don Enrico Ponte ha augurato ai nostri studenti: “Che possiate trovare il segreto della vostra felicità, non di un giorno, ma della vita intera”.

Il secondo momento della mattinata è stato poi dedicato all’incontro con un ospite, sul quale quest’anno era stato mantenuto un grande riserbo, anche se gli studenti erano stati preparati in anticipo dagli insegnanti di Lettere.

Angelo Corbo, poliziotto appartenente alla scorta del giudice Giovanni Falcone, ci ha permesso di conoscere da vicino non solo un testimone della strage di Capaci, ma anche un uomo impegnato in prima linea nella lotta alla mafia attraverso il tempo e le parole che spende gratuitamente nelle scuole in cui viene invitato.

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Angelo ha esordito dicendo: “Mi reputo uno sfortunato perché il 23 maggio 1992 sono rimasto vivo”, sostenendo che avrebbe preferito morire insieme ai suoi colleghi piuttosto che portare il fardello del “sopravvissuto”, il senso di colpa angoscioso che lo accompagna da anni.

Da quelle ceneri delle 17:58 muore e resuscita un Angelo Corbo che non è più quello di prima, che

si domanda perché Dio vuole una cosa del genere, si accorge della malvagità dell’uomo, diventa

consapevole di essere un granello di sabbia.

Corbo all’epoca aveva 26 anni e un figlio di sette mesi; non aveva chiesto di entrare nella scorta di Falcone (aveva solo due anni e mezzo di servizio e non aveva frequentato alcun corso di preparazione) e quando ne entrò a far parte era consapevole di non essere in grado di poter dare quello che Falcone meritava. Ma per Angelo il giudice, palermitano come lui, “rappresentava il mio Che Guevara, il mio condottiero”.

Certo, ogni volta che si montava di servizio si pensava che potesse essere l’ora X, che non si sarebbe

tornati a casa: Falcone era considerato, infatti, un morto che camminava. Eppure “ci sentivamo protetti da uno scudo invisibile, che è l’essere dalla parte del giusto”. Infatti Falcone “poteva farci fare goal contro questo cancro che è la mafia”, continua Corbo.

Quel lontano giorno del 1992, Angelo ha visto morire non solo la sua “guida spirituale”, ma anche i suoi colleghi: insieme a Giovanni Falcone e alla moglie Francesca Morvillo, infatti, sono morti i tre agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, che si trovavano nella prima macchina. Oltre ad Angelo, sono sopravvissuti anche Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, con lui nella terza macchina, e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza, seduto nell’auto di Falcone, nel sedile posteriore.

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Corbo ha mostrato agli studenti le immagini successive all’esplosione, si è soffermato sui dettagli e sulle incongruenze ancora inspiegate, ha illustrato la dinamica dei fatti e le reazioni successive sue e dei colleghi ancora vivi. Ma, al di là del racconto della strage, ha spiegato ai ragazzi qual è la sua visione della mafia: “Non si deve parlare solo di organizzazione, ma di comportamento mafioso, cioè quando non rispettiamo le regole, non rispettiamo il prossimo, quando guardiamo il nostro orticello, perfino quando parcheggiamo in doppia fila, quando facciamo i bulli, quando siamo indifferenti, siamo omertosi.”

“L’incontro con un testimone come lui ci costringe a riflettere – ha sottolineato il prof. Lorenzo Tiengo, che è stato il presentatore della festa e l’intervistatore di Angelo – e a mettere in discussione la nostra quotidianità per renderla più legale.”

Poi uno spazio per le domande dai ragazzi: una tra tutte chiede “la mafia potrà mai essere sconfitta?”. La risposta di Angelo è nuovamente un invito alla presa di coscienza: “In me c’è il cittadino, il poliziotto, la vittima: in ognuno di essi c’è la speranza che un domani qualcuno riesca a debellare questo cancro. Ma si tende a delegare agli altri la sconfitta della mafia: in realtà è responsabilità di ognuno ogni giorno decidere da che parte stare.”

E conclude rivolgendosi agli studenti del San Marco, che ringrazia per l’attenzione e l’accorato silenzio: “Non vi fate illudere dai grandi che vi dicono “Voi siete il futuro”, voi siete il presente!”.

La terza parte della mattinata, infine, è stata pienamente dedicata ai giochi, alle attività, ai video realizzati dalle classi del San Marco: in molti si sono messi all’opera nelle settimane precedenti per proporre giochi con cui coinvolgere altri studenti o insegnanti o per montare dei video spiritosi sulla vita scolastica quotidiana. Allegria e spensieratezza hanno accompagnato le ultime due ore insieme, e quella gioia di cui aveva parlato don Enrico nell’omelia si è manifestata in pienezza, in nome di San Giovanni Bosco.

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